Uomo che cade. Una distruzione d’immagini di distruzione

Mauro Carbone

Due anni fa, con l’ottavo anniversario dell’11 settembre 2001, è arrivata la notizia che dal “Memorial & Museum” che gli sarà dedicato a New York verranno escluse, tra le altre, anche le terribili immagini delle persone che si gettavano dalle Twin Towers in fiamme. Immagini che, inevitabilmente ed indelebilmente, si sono impresse nella nostra memoria e che, nel contempo, con insistenza uguale e contraria, sono divenute oggetto di una martellante strategia di rimozione, di cui la notizia sopra citata potrebbe sintetizzare l’ideale approdo. Immagini, insomma, contro il cui intollerabile impatto è da tempo ingaggiata una lotta senza quartiere la cui posta in gioco è la memoria collettiva – “e perciò l’oblio collettivo”, come è stato opportunamente sottolineato[1] – dell’evento che ha aperto in maniera sconvolgente il XXI secolo.

E’ su tale disegno, consapevole o inconsapevole, di operare una “distruzione d’immagini di distruzione” che qui vorrei tentare d’interrogarmi. Facendo però una premessa che non riguarda in specifico quelle immagini – le immagini dei jumpers, i “saltatori”, come le si è chiamate nel trasparente tentativo di addomesticarle – ma investe l’evento dell’11 settembre 2001 come tale. Si tratta di questo: avendo scritto un libro ad esso dedicato,[2] da quante persone mi sono sentito obiettare che, non fosse stato per le sue immagini­, in questo caso le immagini genericamente intese, non sarebbe certo risultato una tragedia più grave di altre, ben più sanguinose! Non fosse stato per le sue immagini: possiamo davvero continuare a pensare, come il platonismo ci ha insegnato, che l’immagine sia soltanto “una seconda cosa”[3] rispetto al reale, aggiungendo o togliendo la quale esso rimanga comunque lo stesso? E’ ovvio che, non fosse stato per le sue immagini, quello dell’11 settembre 2001 sarebbe stato, né più né meno, un altro evento. Ma ciò, anziché servire a ridimensionarne la gravità, dovrebbe semmai aiutarci a considerare sino in fondo l’intrinseca portata politica del nostro rapporto estetico-sensibile col mondo, con cui quello con le immagini fa evidentemente tutt’uno: un rapporto che proprio per tale sua portata il platonismo, per parte sua intrinsecamente animato da volontà di controllo, non cessa perciò di voler an-estetizzare.

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