Co(s)mica Italia.

Il ballo in maschera del desiderio e della legge nella stagione aurea della commedia cinematografica “all’italiana”.

di Marco Dinoi (2003)

Tra il cinema e la realtà, tra le storie che i film raccontano e la Storia, c’è una linea di contatto che passa prima di tutto per la macchina da presa: il meccano cinema è potenzialmente in grado di cogliere la realtà nel suo divenire, nel suo prodursi.

Si può mentire, certo; con la cinepresa si può contraffare e contrabbandare la realtà – e ci si può anche chiedere cosa sia la realtà -, ma «il cinema non morirà perché non morirà il movimento dell’uomo», la realtà di quel movimento di cui il cinema si nutre e con cui nutre la nostra visione; così un giovane Godard faceva professione di agnostica fede.

Parte dal rapporto tra la realtà e la sua resa cinematografica come plesso problematico fondante, e per questo sviluppato con rigore nelle sue implicazioni teoriche più rilevanti, l’indagine che Maurizio Grande compie ne La commedia all’italiana (pp. 278, € 22,00), con cui Bulzoni mette insieme due precedenti volumi dello studioso scomparso nel 1996, Abiti nuziali e biglietti di banca. La società della commedia nel cinema italiano (1986) e Il cinema di Saturno (1992). Un periodo, quello della commedia dagli inizi degli anni cinquanta alla metà dei sessanta, denso di trasformazioni che Grande riassume nel passaggio non perfettamente compiuto da una società a carattere prevalentemente agricolo ad una società industriale. Tale incompiutezza fa sentire il suo peso sul corso e sugli esiti della trasformazione stessa; da qui l’esigenza di fermarsi sulle articolazioni del genere che precedono e seguono il periodo “aureo”. Le prime vittime di questo sguardo programmaticamente ampio sono alcuni dei più diffusi luoghi comuni critici che vengono rovesciati in modo radicale. La commedia degli anni trenta (i telefoni bianchi) non sarà quindi lo spettacolo di “evasione” che la critica ufficiale ha denunciato, ma il dispositivo di “reclusione” dei personaggi e della realtà stessa in spazi impermeabili all’esterno. È l’inizio del gioco delle maschere per supplire alla carenza di realtà propria dei «periodi a trasformazione bloccata, ad evoluzione rallentata e controllata (e il fascismo, come ogni dittatura, è la forma di potere che corrisponde al blocco delle trasformazioni sociali)».

Un’altra pervicace lettura critica ha visto nella “commedia all’italiana” la forma bozzettistica con cui la grande lezione neorealista viene tradita. Posizione riduttiva, a cui Grande oppone argomenti puntuali ed efficaci: lungi dall’essere un tradimento di quell’immagine di realtà cruda e crudele che autori come Rossellini, Visconti, De Sica e Zavattini avevano proposto, la commedia traccia la divaricazione altrettanto crudele tra il soggetto e l’io; tra il soggetto, aperto al possibile e dominato dalle sue pulsioni, e le maschere dell’io, veri e propri ruoli che gli vengono imposti dalla legge sociale nel momento dell’ingresso in una realtà che non riconosce ed in cui non si riconosce. È proprio a partire da questa deficienza cognitiva ed affettiva che l’io può edificare il teatrino della soggettività amputata, in cui mettere in scena la propria inadeguatezza imbrigliandola – e quindi illusoriamente risolvendola, ma a quale prezzo? – nelle maglie simboliche della rappresentazione di caratteri e tipi. «Ma per rinunciare al “possibile” e scegliere il “reale”, occorre anche codificare il desiderio e i bisogni, delimitare le tendenze caotiche, la dispersione e la vocazione al consumo illimitato delle risorse umane; arginare lo spreco improduttivo, circoscrivere il godimento e impedire la dissipazione dell’esistenza nel non-accumulabile, nel non-remunerativo, nel non-capitalizzabile.» Il che implica la necessità di «arginare l’eros come pulsione senza vincoli, leggi, limitazioni; tramutarlo in sessualità produttiva, in realizzazione sociale tramite procreazione, in pulsione legittimata

Conflittualità latente tra desiderio e legge che ci fa comprendere perché la commedia all’italiana celi quasi sempre, dietro allo scatto liberatorio (e consolatorio) del riso, un’ombra in cui si intravede la provvisorietà di quella liberazione (e di quella consolazione). Quanto al presupposto bozzettismo, anche qui si deve registrare, più che una soluzione di comodo, una modalità operativa peculiare e strategica che definisce i film presi in esame nella loro relazione con il grande pubblico, che veniva coimplicato nello spettacolo cinematografico proprio in quel “pedinamento” dell’uomo della strada che Zavattini aveva teorizzato. Tallonamento che tuttavia perseguiva la “medietà” spettacolare «dell’adattamento “disturbato”, diviso, ambivalente, in cui si rincorre una maschera truffaldina o morale, comunque rassicurante, che non venga insabbiata nell’anonimato ma costituisca l’esaltazione patetica di ciò che vorremmo essere affidandoci alla pressione esterna; che ci dia ciò che non abbiamo e che non siamo (Sordi e Gassman), oppure che ci dia un disastroso volto “ideale” (Tognazzi e Manfredi).» Pedinamento stretto del soggetto che implica necessariamente la parzialità di un angolo visuale – proprio come parziale è la vista di questi personaggi incapaci di cogliere l’orizzonte ampio delle trasformazioni sociali da cui sono travolti; visione frammentata che rende conto anche di quella incompiutezza di cui parlavamo prima: «la commedia espone la condizione di personaggi costretti alla flessibilità psicologica, morale, comportamentale; personaggi mai definitivamente “compiuti” e costretti di continuo a mutare parametri di valutazione e “maschere di prestazione” per trovare una collocazione nella società, per aderire il più possibile ad una società che detta le norme della vita collettiva.»

Nell’impossibilità di aprire uno spazio di relazione tra la norma e l’esperienza, la declinazione delle figure e dei personaggi che Grande rinviene nei testi di cui sceglie di parlare diventa allora un catalogo – che a volte coincide con un vero e proprio bestiario – di tattiche di adattamento che non riescono a diventare strategie di inclusione dell’esterno nel soggetto (e viceversa) che in questo modo tende a rispondere con modalità aberranti, per eccesso di adeguamento o per difetto di personalità. Spazio non riconciliato in cui «la manipolazione del principio di realtà, la caricatura del desiderio, l’idealizzazione delle mete impossibili segnano il carattere saturnino dell’eroe imprigionato nella sua stessa insopportabile maschera, nell’immagine tronfia e imbelle della truffa morale, nel ghigno avido o pavido della prevaricazione e della viltà». Proprio qui, tra gli altri protagonisti della “commedia all’italiana”, emerge la figura di Alberto Sordi, «l’attore che meglio ha saputo restituire sullo schermo i caratteri contraddittori di un popolo di saltimbanchi della vita e della storia.»

Con strumenti ermeneutici eterogenei, primi fra tutti quelli della critica letteraria di Frye e Bachtin, della psicanalisi Lacaniana e della teoria del cinema di Deleuze, la scrittura di Grande disegna le proprie traiettorie interpretative come una spirale in cui demolizione degli abbagli critici più retrivi e messa in prospettiva del senso sono due tempi di uno stesso movimento. Ad ogni giro si ha il sospetto che ci sia un ritorno a temi già esplorati – il che è possibile in una ricerca che, più che dare risposte univoche, tende a suscitare una lettura attiva che amplifichi le risonanze delle domande sollevate. Dal movimento del visibile (mondo) alle microfratture del soggetto, in realtà ad ogni giro di spirale la posta in gioco sembra farsi più sottile ed importante. E questo su due piani: da una parte la rilevanza dell’oggetto di studio, dall’altra la posizione che nei suoi confronti viene ad assumere il lavoro del critico. Quest’ultimo non fa coincidere la propria opera esegetica con il giudizio di gusto o di valore, ma si concentra sui caratteri funzionali del linguaggio (cinematografico e non) e sulle loro relazioni con l’esterno – lo spettatore, la realtà, la storia. In questo modo l’autore travalica di molto, senza per questo mancare di rigore epistemologico, quei cortiletti accademici in cui talvolta si delimitano ambiti disciplinari che dovrebbero rimanere permeabili perché si possa cogliere fino in fondo lo spettro problematico che implicano. Per questi motivi il libro assume una rilevanza singolare per una comprensione piena di un periodo importante del cinema italiano e, tout court, della Storia di questo paese; anche per questi motivi la scomparsa di Maurizio Grande è avvenuta veramente troppo presto, interrompendo un percorso di ricerca aperto a sviluppi fecondi. Libro importante perché è testimonianza di uno sguardo in atto, clinico e al tempo stesso passionale, che è riflesso anamorfico dell’immagine di realtà che ci hanno dato gli interpreti (registi, attori e sceneggiatori) della grande stagione della commedia all’italiana; uomini e donne a cui va «il riconoscimento, la stima, il rispetto, l’ammirazione – e soprattutto l’amore – di chi in questo cinema ha ritrovato la potenza delle pulsioni del soggetto e la bella epopea della vita ondulata. La vita di tutti.»

Articolo apparso con il titolo: “Saltimbanchi della vita in cerca d’identità” in “Alias”, supplemento de Il Manifesto (12 luglio 2003), in occasione della riedizione in un unico volume delle riflessioni dello studioso romano Maurizio Grande sulla  commedia cinematografica italiana.