Intervento di Francesco Zucconi al XXXVII convegno AISS “ARTI E POLITICA” (audio)

Di seguito riportiamo la registrazione dell’intervento di Francesco Zucconi “Tra inchiesta e diagnosi del discorso politico in “L’Affaire Moro” realizzato in occasione XXXVII convegno nazionale dell’Associazione Italiana Studi Semiotici (“Politica 2.0 – Memoria, etica e nuove forme della comunicazione in politica”) svoltosi a Bologna dal 23 al 25 ottobre 2009.

Prima parte
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Seconda parte
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Terza parte
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“Occhi aperti, occhi chiusi. Le mie parole sono lacrime” di Simone Ghelli

Penso che succeda proprio così, quando una persona non c’è più. Che ti venga da pensare a tutto quello che avevi ancora da dirgli. I giorni si accavallano gli uni agli altri, persi in un lavoro che non ti appartiene, e ti dici sempre che domani magari potrai fare quello che non hai fatto oggi. E’ tanto tempo che non lo sento, pensi. Magari domani lo chiamo. E poi finisce che non lo fai perché domani sarà ancora peggio, perché avrai aggiunto un altro anello alla catena che ti lega al tempo degli schiavi. La fregatura è che ti senti pure in colpa, perché non l’hai più chiamato, perché senti di aver tradito quell’ideale che ti legava con tanta forza a lui. Marco non c’è più, ma anche nella sua assenza riesce a farsi sentire. Quello che mi manca è di ascoltare la sua voce, perché davanti alla forza delle sue parole raramente trovavo qualcosa da aggiungere. Le sue erano di quelle parole che ti risuonano in testa per giorni, se non per mesi. Sarà per questo che quando il 16 gennaio mi hanno chiamato per dirmi quello che era accaduto, io non c’ho creduto. Non mi veniva da pensare niente di niente. Mi sono sentito improvvisamente vuoto, un corpo galleggiante sopra quel brusio ininterrotto che è la vita romana. Occhi aperti, occhi chiusi. Senti quella prima lacrima che s’intrattiene sul limite prima di tuffarsi oltre le ciglia. Sarà perché è il ricordo di chi non c’è più a renderti triste, disperato, e il ricordo ci mette un po’ ad affiorare. Deve farsi largo tra le macerie della realtà. E’ come se all’improvviso uno scrittore dovesse cambiare i tempi della sua storia.
Volti pagina e ciò che è, era.

Il mio pensiero torna al 1996, all’Università di Siena, a quel primo lutto che in qualche modo mi costrinse a fare una scelta. Era il 30 novembre. Io ancora non sapevo niente, se non che mi ero iscritto alla Facoltà di Lettere e Filosofia per dimostrare a qualcuno, non so più chi, che la ragioneria non era materia per me. Quando se ne andò Maurizio Grande, io ancora non conoscevo Marco, né tutti quei compagni di studi che mi avrebbero proiettato nel mondo del cinema. Proprio così, “proiettato”, perché per noi il cinema era la vita, non una sua imitazione. Poco dopo sarebbe infatti nato il Laboratorio Universitario Cinematografico, e con esso le proiezioni serali in Facoltà a cui seguivano immancabilmente le accese discussioni al Bar del Pozzo, davanti a un paio di bicchieri di vino, se non tre. Si finiva sempre a parlare di Deleuze, perché quella era la strada su cui Marco Dinoi e tutti gli altri si erano ritrovati orfani di Maurizio Grande. Io bevevo le loro parole così come il vino. Me ne ubriacavo, eppure lo stesso ne chiedevo ancora il giorno seguente. Ammiravo la loro capacità di fare del cinema una macchina su cui attraversare i paesaggi del mondo. Le anguste mura di Siena mi sembrarono invisibili in quegli anni di pensieri furenti. Volevo far mia quell’ostinazione nel non volersi piegare alle regole di un certo pensiero accademico, conservatore anche nelle sue apparenti aperture. Quelle ferite che solo l’indifferenza sa aprirti le scoprii in seguito anch’io sulla mia pelle, e oggi più che mai urlano il loro dolore. Non c’è giustizia, e se c’è non mi appartiene.
Quella voglia di cambiare le cose non se n’è andata neanche quando in quella stessa Università Marco c’è entrato come ricercatore e docente. Sono passati appena un paio di anni da quando c’incontravamo nel tentativo di formare una redazione pronta a far rivivere “La Scena e lo Schermo”, rivista che Grande diresse nei suoi anni senesi. Durante il tragitto che mi avrebbe portato al Marani di San Lorenzo, dove tenevamo le nostre riunioni, non riuscivo a trattenere un sorriso al pensiero di trovarlo già là, con un libro aperto sul tavolo, nell’attesa dei soliti ritardatari romani. Prima di arrivare al centro del problema divagavamo tra aneddoti sul mondo universitario e stupide battute, di cui io continuo ancora oggi ad esser maestro, finché Marco non prendeva in mano le redini del discorso. Era abituato a tenere il morso ai propri pensieri, che come cavalli imbazzarriti scalciavano contro gli stupidi steccati che ci piace d’innalzare per non pestarci i piedi, figurarsi quanto potevano allarmarlo dei giovani appena dottorati come noi! Bastava guardarlo negli occhi per capire il turbinìo d’idee che gli cresceva dentro, né c’era molto d’aspettare prima che decidesse d’aprir quelle finestre. Sarà perché amo ritrarmi nel mio guscio, ma io sentivo che lui parlava davvero per tutti. Nel senso che tirava fuori quelle cose che ci hanno abituato ad ingoiare ogni giorno come la pillola dorata. Marco non ce la faceva proprio a buttarla giù, e sarà per questo che mi capitava spesso di sentirmi dire “ma chi si crede d’esser questo!”. Ecco l’effetto che faceva a quelli che ancora campano della rendita di teorie ammuffite. Non ce l’avevano il coraggio di dirglielo in faccia, ma aspettavano il momento per sparargli nella schiena. Penso che succeda così con quelli che vogliono cambiare le cose. Li si isola. Molti finiscono così nel ritrarsi in sé stessi e a forza d’ingoiare amaro diventano scontrosi, refrattari al mondo. Ma Marco non era fatto così, perché il rigore del suo pensiero era addolcito dalla disponibilità ad essere sempre presente, sempre pronto ad intervenire in prima linea. Basti pensare all’ultimo progetto in cui si era avventurato con passione, quello della scuola palestinese di musica Al Kamandjati, su cui aveva da poco finito di girare un video. Doveva essere così anche con i suoi studenti. Lo so dall’entusiasmo con cui parlava dell’insegnamento, che per lui era confronto con i propri allievi, non la morta ripetizione di schemi come si usa fare ormai da anni nel nostro paese. Una volta mi parlò della partecipazione dei suoi studenti alla proposta di analizzare un film come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri. Mi disse che era incredibile l’entusiasmo che c’avevano messo e l’intelligenza con cui avevano parlato di quel film. Me lo disse per spiegarmi come la storia della riforma universitaria fosse soltanto una scusa usata da molti docenti per impoverire ancora di più i loro programmi e lo spessore teorico delle loro lezioni. Era lo stesso principio per cui criticava il cinema italiano, sempre pronto a pretender fondi, ma sempre più distante dalla realtà del mondo. Durante una tavola rotonda organizzata da Alphaville ricordo che elogiò Saverio Costanzo e il suo Private proprio perché era il segno di come si potesse fare qualcosa di diverso anche in questo paese.
Ecco, se dovessi pensare ad un’unica cosa da portarmi con me non esiterei un attimo a scegliere questa sua forza nel rifiutare le giustificazioni, l’idea che si scelga sempre, anche e soprattutto quando non si sceglie. Proprio come al cinema. Questa inquadratura si, quest’altra no. E’ sempre una questione di sguardi.
Quando mi hanno chiamato, quel giorno, è stato un po’ come sentirmelo rubare. Avevo ancora tante cose da sentirti dire, ma è giunta l’ora che le dica io, senza attendere oltre.
Se c’è una giustizia a questo mondo, non è la mia. Per questo, Marco, terrò sempre gli occhi bene aperti. E se vorrò fare una cosa, non accamperò scuse. Come sentisti dire quella volta da Herzog: se davvero volete fare cinema e non avete i soldi per comprarvi una videocamera, che problema c’è? Rubatela!

Simone Ghelli
26/01/2008

Marco Dinoi se n’è andato mercoledì 15 gennaio, all’età di 35 anni, lasciando tutti i suoi amici senza parole. Eppure sento ancora la sua prorompente risata. Forse anch’io non sono più di questo mondo.

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